Materialità dei segni
pubblicato in:”Da abitazione a residenza. Esperienze e progetti per l’Architettura degli anni ’80”, Istituto MIDES, Roma 1979
Si verificano in questi anni due fenomeni paralleli che è utile porre in relazione. Da una parte un aumento dell’area dei bisogni socialmente necessari ed una maggiore articolazione di essi, peraltro indotti dalla stessa estraniazione dalla ricchezza di bisogni secondo un processo tipico del capitalismo avanzato, che A. Heller deduce dalla complessa trattazione marxiana. Dall’altra gli oggetti architettonici prodotti tendono sempre più a contrapporsi a quel particolare impoverimento di bisogni che i modelli del razionalismo avevano diffuso.
La teoria elaborata nei C.I.A.M. aveva di fatto ridotto bisogni e valori d’uso complessivi a «funzioni» parcellizzate (specialmente zonizzate), definito queste attraverso standard assai vicini al minimo vitale (in accordo con la unica necessità che il capitalismo industriale poteva esprimere al riguardo, di garantirsi la pura riproduzione della forza lavoro) e infine premesso, come è stato ripetuto per decenni, che la «forma» seguisse la funzione.
Al contrario ciò che viene prodotto dalla ricerca architettonica criticamente più attenta tende a superare quel modello di funzioni disintegrate non più, come illusoriamente avvenuto nei decenni passati, mediante sovrapposizioni e complicazioni di esse, senza intervenire sul concetto stesso di funzione, ma per mezzo di immagini complessive, e perciò simboliche, nelle quali i valori d’uso, marxianamente, «dello stomaco» e «della fantasia» siano le due facce dello stesso foglio. E in questa area di ricerca, cosi sguarnita di teorizzazioni non dichiaratamente individuali (gli storici ed i critici per lo più attardati a fornire dosi sempre più massicce di cattiva coscienza e di sostanziale avallo agli epigono «impegnati» dell’empiria razionalista, vi si avvicinano con sospetto e per vie traverse) occorrerà nei prossimi anni mettere ordine.
Seguendo il filo di un noto passo marxiano consideriamo la progettazione (come ogni altra attività creativa – materialisticamente lavorativa -), «in primo luogo un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico tra se stesso e la natura, alla materialità della natura.. In questo senso “astratto” il processo è «indipendente da ogni forma di vita e anzi è comune a tutte le forme di società e di vita umana.
In secondo luogo essa è «produzione sociale di valori racchiusi in una forma data di merce e tale forma «come in uno specchio restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose.
In queste proposizioni sono contenute alcune conseguenze che ritengo utile particolarizzare:
1) Il primo referente dei segni dell’architettura andrà cercato analizzando il processo di appropriazione della natura nella sua doppia articolazione di conoscenza/modificazione di essa e qualsiasi secondo referente economico-sociale o culturale sarà sempre “appoggiato” su di un referente naturale.
2) Tale processo è segnato infatti da due caratteristiche complementari che derivano dal non essere solamente razionale, ma dal contenere un elemento di passività. Il condizionamento della natura sull’uomo è iniziato millenni prima che questi ponesse segni duraturi (architettonici) e inoltre esso si riproduce tuttora su ogni singolo individuo. Questo va riaffermato contro ogni metafisica che riduca la conoscenza a produzione di realtà da parte del soggetto; ne consegue tra l’altro la non arbitrarietà dei segni architettonici che, a differenza dei segni verbali e contro ogni meccanica trasposizione di strutture da un linguaggio ad un altro, conservano sempre una derivazione diretta o indiretta dalle forme della natura prima.
3) Come la mano non è solo il mezzo del lavoro umano, ma anche il suo prodotto, ossia l’uomo modifica sé stesso e le condizioni della propria esperienza attraverso il lavoro, cosi il prodotto del suo lavoro gli è restituito inserito nel più generale campo delle forme naturali, oggetto di matura artificiale. In questo senso introdurre alcune categorie di esperienza primaria dello spazio non è riferirsi ad archetipi che si riproducono identici per ogni uomo e in ogni epoca storica, ma a condizionamenti costanti sui quali si sovrappongono via via le stratificazioni delle forme storiche, ma che non per questo cessano di esistere.
Ogni analisi dei segni architettonici deve all’ origine essere riferita alle coordinate che l’uomo stabilisce attorno a sé nel processo di sperimentazione/appropriazione dello spazio naturale (spazio che in questo àmbito di rilevazione è ben diverso dallo spazio astratto e isotropo della geometria e anche da quello instabile della percezione immediata) entro il quale è da definire in J>rimo luogo l’opposizione orizzontale-verticale che rimanda a quella terra-uomo.
Nel piano orizzontale che l’uomo percorre, esplora, delimita; ègli sperimenta la propria genericità materiale. Nella direzione verticale, dove pone i segni della presa di possesso di quella estensione, egli trova il luogo della propria specificità umana.
L’orizzontale terrestre viene traslata a delimitare un campo d’azione nella lastra appoggiata del trilite o nella cornice dell’ordine, moltiplicata con legge scalere nella piramide a gradoni o al di sotto dell’orizzonte nella cavea del teatro, conservando e arricchendo nella trasposizione simbolica i primitivi significati. La verticale isolata, – cippo, obelisco, guglia o grattacielo -, esplosa nella successione di colonne o ricomposta con la saldatura di queste nel muro, sempre nel duplice significato di definizione di luogo singolare contrapposto alla indifferente estensione orizzontale e di misurazione (appropriazione) di essa.
La tensione dialettica che oppone l’uomo alla terra è replicata considerando l’altra estensione che si congiunge alla prima lungo l’orizzonte irraggiungibile: la volta del cielo sopra la sua testa, simmetrica alla terra sotto i suoi piedi, luogo incorporeo e non¬ sperimentabile e quindi dedicato alle proiezioni, ai sistemi, ai miti. Frontoni del tempio, volte, cupole ed ogni altra forma sia stata posta sopra l’ultima replica dell’orizzontale sono luoghi di questo ordine di simboli.
Nel rapporto con queste coordinate dello spazio e nella costanza dei rispettivi significati primari possiamo leggere come l’uomo abbia nel tempo considerato se stesso in relazione al campo della propria esperienza diretta e della propria elaborazione fantastica, che cosa abbia voluto organizzare nel proprio spazio e proiettare su di esso, immagine di ciò che è pensato esistere al di là dei due orizzonti, nella profondità della terra e sulla superficie cava del cielo.
La successione storica delle forme ci restituisce tutte le articolazioni di questa coscienza dello spazio. I valori simbolici primari che risiedono nella catena di figurazioni dello spazio finito e dei due spazi infiniti costituiscono un riferimento anche ed a maggior ragione quando una tale distinzione o uno dei termini sembrano rimossi e temporaneamente cancellati, come ad esempio nelle poetiche di isotropia delle direzioni che il Movimento Moderno si diede per esorcizzare ogni ¬componente ed ogni residuo di una ripudiata eredità c1assicista.
Le categorie di esperienza primaria dello spazio, lungi dal costituire archetipi immobili, sono condizionamenti costanti nella formazione dell’immagine simbolica di esso, e partendo dalla loro stessa dialettica si ricostruirà l’evoluzione storica di tale immagine. Esse si realizzano in elementi plastici individuali, materializzazioni di forme geomorfe e antropomorfe, solo nella conformazione arcaica dello spazio dominata dal pensiero totemico; successivamente nello spazio antico, nel quale è introdotto il controllo geometrico-proporzionale dell’ordine, e poi nello spazio monoprospettico rinascimentale fino a quello poliprospettico a noi contemporaneo, divengono “materiali naturali” per tali elaborazioni.
Oltre a questa sembra di poter individuare un’altra forma nella quale i portati simbolici delle categorie che andiamo definendo permangono, non più come terreno di crescita sul quale si impiantano le diverse forme simboliche dello spazio, ma direttamente. Essa è legata al concetto di “scala”, categoria alquanto desueta e pertanto da ridefinire in opposizione a proporzione. Quest’ultima, rapporto matematico delle parti tra loro, è categoria logico-astratta, in sostanza un’altro modo di dire geometria.
Scala è innanzi tutto rapporto dell’intero oggetto architettonico o dei suoi sottomultipli plastici con la misura dell’uomo e perciò categoria connessa con l’attività empirica relativa all’uso. Inoltre sopra i significati reali che hanno origine da confronti dimensionali immediati, ne nascono altri, virtuali o simbolici, possibili grazie alla umana facoltà di proiettare se stesso (il proprio corpo, ma non solo questo) dentro gli oggetti che ha conosciuto e dei quali si è appropriato.
Più concretamente, ad esempio, al primo tipo di significati sono riconducibili intenzioni di riempire (o di lasciare scoperti) di elementi plastici individuali gli intervalli dimensionali più vicini alla misura umana, elementi che l’uomo possa materialmente misurare con i propri gesti e percorrere, mentre al secondo tipo (significati virtuali) fanno capo le intenzioni di raggruppare sottomultipli plastici in alcuni intervalli distanziali tra loro, o al contrario di distribuirli linearmente in tutte le divisioni tra la dimensione minima e quella dell’intero organismo.
A ben vedere anche lo strumento conoscitivo “scala” permette di riconnettere due ordini di categorie che. derivando da sistemi di pensiero diversi, sono abitualmente tenute separate: da una parte quello geometrico-proporzionale (di cui la scala rappresenta la materializzazione), dall’altra quello del valore d’uso ed entro quest’ultimo ai due aspetti citati sopra, “dello stomaco” e “della fantasia”, sono riconducibili i due’ordini di significati ora distinti, reali e virtuali o simbolici.