Città archeologica e città contemporanea

I Trofei di Mario a piazza Vittorio
pubblicato in Metamorfosi. Quaderni di Architettura, anno I, n. 1-2 (aprile 1985)

Interroghiamo gli elementi i più diversi della Città. dagli strati più antichi a quelli contemporanei -questi ultimi oggi più spaesati e muti di quelli alla ricerca di tracce per possibili riconnessioni parziali.

Come chi si risveglia dopo un lungo sogno la cultura urbana che fino ad oggi ha elaborato idee generali, strategie complessive e ridefinizioni totali del proprio ruolo di intervento è colta da vertigine di fronte alla dissoluzione definitiva ed al vuoto di quegli schemi, mentre, d’altra parte, nuovi strumenti di intervento provenivano in questi anni da ricognizioni al margine o extradisciplinari.

Durante l’elaborazione di questo progetto abbiamo collaborato a lungo con un gruppo di archeologi, progettando assieme a loro la sistemazione dei ruderi che insistono sulla piazza. Con loro si è gradualmente stabilita una sorta di complicità culturale che andava oltre la comune polemica contro quella cultura urbana. Mi pare di riconoscere ora non solo un parallelo approccio all’oggetto -strato archeologico per loro, strato urbano per me, architetto- ma che il mio stesso metodo di lavoro sia stato investito da questo parallelismo, dando ad alcune analisi e generalizzazioni acquisite da tempo una nuova forma sintetica nel progetto.

Cercherò quindi di spiegare il nostro lavoro con la descrizione del loro, o almeno di quanto io tendenziosamente ho assorbito dalla loro frequentazione, nell’intenzione che, partendo da un diverso punto di vista, vecchi schemi di pensiero non rientrino indesiderati nel gioco.
L’archeologo lavora partendo da frammenti, mai da sistemi o disegni generali.
Il frammento, la rovina, è un oggetto che in prima istanza parla solo linguaggi empirici: materiale, tecnica di costruzione, forma, sono criteri che aprono la strada ad una possibile relazione con altri frammenti analoghi. In quanto tale, e sempre in prima istanza, il frammento è come sospeso nella sua pura entità fattuale, destoricizzato, ancora al di fuori della storia dei manufatti umani e a maggior ragione da quella dei fenomeni rappresentativi o artistici.

Esso in questa fase splende della sua solitaria individualità, nel senso che comunica ogni sua minima qualità, è interrogato per ogni indizio che lo possa mettere in relazione con altri frammenti. Più tardi, con l’addensarsi delle notizie si ha un’iniziale collocazione delle parti entro una datazione. Ma l’ipotesi lascia residui, dubbi che riaprono problemi ogni volta che si aggiunge al mosaico un nuovo frammento e che richiedono nuove ipotesi e nuove sistemazioni parziali.

Questo modo di lavorare ha una conseguenza assai importante. L’archeologo sa che ogni ipotesi sul suo testo non riprodurrà mai la realtà di quel manufatto che non è mai esistita se non entro la serie di successive modificazioni nel tempo della sua lunga storia. Di conseguenza ogni sua ricostruzione o restauro renderà alla città un oggetto nuovo, ultima trasformazione di quella lunga serie temporale, in sostanza un doppio o simulacro del manufatto sul quale si è intervenuti. E dal canto suo la odierna teoria del restauro ha con grande chiarezza messo a punto il principio di reversibilità del restauro, protesi o modificazione che, lasciando intatto il testo, potrà in ogni momento essere rimossa o sostituita, dando luogo ad un altro doppio. Il processo dell’archeologia è tendenzialmente infinito.

L’architetto si trova oggi ad operare in un campo di rovine. Rovine che non sono solo quelle che condivide col filosofo, rovine dei sistemi di legittimazione del sapere, dei “grandi racconti” ereditati dagli ultimi cento anni di pensiero. Rovine che sono anche e soprattutto quelle tangibili della Città nella quale è chiamato ad intervenire; dal suo punto di vista sono queste che hanno determinato quelle e non viceversa.

Nel suo fare non lo soccorrono più le chiare distinzioni che ha ereditato: centro-periferia, città¬territorio, antico-nuovo, corrispondenza funzionale tra le parti. Né ha più rilevanza strumentale l’artificiosa derivazione dalla città rinascimentale e oltre della metropoli capitalista, forzatamente ricercata dagli storici urbani del Moderno ai fini di una legittimazione culturale di questa.

Oggi il fenomeno urbano si presenta tendenzialmente uguale in ogni punto del territorio e, a parte squilibri di investimento economico, assistiamo ad un generale dissolvimento delle gerarchie della città. Il sistema metropolitano non chiede più legittimazione attraverso un disegno complessivo che dimostri gerarchia o corrispondenza tra le sue parti: esso sopravvive grazie ad altre forme di legittimazione più dirette, per puro esercizio di potere.
Scomparse o in via di sparizione gerarchie e differenze, la Città viene ora riletta (e usata) per frammenti; e che ognuno si ritrovi il proprio percorso e le sue classificazioni. La Città delle architetture contro, come si diceva, l’Architettura della Città.

Se mai nella teoria urbana è esistito un capitolo di Teoria dell’Antico (ma io credo che tutt’al più abbiamo ereditato una teoria antiquaria della città), oggi si è anch’essa dissolta, le memorie urbane del passato incorniciate e messe tra parentesi come entro vetrine merceologiche o cornici di schermi televisivi, talché è messo in crisi uno dei principali assunti attribuiti alla Città lungo tutta la sua storia: quello di conservare e promuovere la memoria dell’identità collettiva e della specificità geoculturale. Tutte le città sono simili, tutte le parti della Città si equivalgono.

Una realtà mutata richiede nuove strategie. lneffettuali perché conducono a risultati opposti allo scopo, come tutta l’urbanistica modernista ha dimostrato, le strategie di quanti, anche indirettamente, si rifanno a quelle teorie di Piano o del disegno complessivo. Ogni intervento in questa direzione ha portato negli ultimi trent’anni, an¬ziché un cambiamento di direzione, un’accelerazione dei processi in atto.

In una Città di rovine e di frammenti è invece utile rovesciare quel procedimento e interrogare questi ultimi. Ogni frammento è eloquente; il suo stesso isolamento, la sua stessa mancanza di relazioni gerarchiche in un disegno generale e, paradossalmente, la sua stessa astoricità gli conferiscono la possibi1ità di’concentrare in sé, come avviene’ nel reperto archeologico, la propria storia complessiva, diversa e più reale della storia che vorremmo che raccontasse.

Un tale riconoscimento apre la strada ad un lavoro di relazione tra le parti nel quale la ricerca di unità tra i frammenti è altrettanto importante quanto il riconoscimento di differenza e la sua messa in valore. Sinteticamente: ad un ordine sintattico si affianca una organizzazione paratattica in modo tale che il disegno o progetto che ci permette di ricomporre i frammenti sia volto più a descrivere questi che a dimostrare uno schema, come era in passato.

Solo entro tale logica si può porre oggi il problema di una teoria dell’Antico della Città, fondata sull’ambiguità (ma per ora al massimo su di un precario equilibrio) da attribuire alle rovine tra il loro essere specificità storiche, differenze e il loro. manifestarsi quali doppi o simulacri, appartenenti alla contemporaneità.

A questo punto l’analogia tra il lavoro dell’architetto e dell’archeologo si arresta scontrandosi con le specificità semantiche dei due sistemi, l’archeologo e l’architettonico; per quest’ultimo il processo è chiuso e bloccato in una forma, che alla fine non’ è altro che l’ultimo termine della serie di quegli oggetti o frammenti della Città dalla quale si è partiti.
È la città come processo che continua.

Nel ridisegno del giardino di Piazza Vittorio le valenze dell’area ci hanno fatto violentemente scontrare, come mai prima, con la manipolazione pratica di questi temi e ci hanno indotto a lavorare in modo nuovo.

Nell’area e persino entro il perimetro del giardino convivono tracce e rovine di grandi sistemi del passato in un complicato palinsesto che pone di fronte, per così dire orizzontalmente, ogni elemento di esso:
l’Aggere, gli acquedotti e il nodo viario Romano.
I conventi e le parrocchie con gli orti e le vigne extraurbane.
l’Asse Sistino e il sistema delle ville sei-settecentesco.
la Scacchiera del quartiere postunitario e il disegno del giardino umbertino.
I ruderi contemporanei dell’lntermetro e del mercato.

Accanto a tali reperti reali è da porre tutta la serie iconografica che descrive e decodifica la successione delle fasi storiche dell’area ma anche, come nel caso della serie di incisioni piranesiane sul “Castello dell’Acqua Giulia”, offre una lettura tanto tendenziosa della Rovina, che ne costruisce di fatto una nuova. Certamente la lettura “archeologica” di Piranesi ha molto influenzato le nostre scelte di metodo, per quella ben nota e felicissima composizione tra analisi scientifica portata fino al limite della decostruzione della Rovina e sintesi formale nella rappresentazione di essa.

All’inizio siamo passati attraverso una lunga fase di decostruzione delle unità fittizie che incontravamo nell’area: quella dell’asse Sistino dissimulato nella maglia ortogonale e negato tanto dall’invaso della piazza che dal falso tridente del lato sud; quella del disegno del giardino, mediocre contaminazione tra più eleganti tracciati coevi francesi e inglesi, negato a sua volta dal bizzarro successivo inserimento e rinchiuso nella pittoresca cornice di boschetti di palme (come piaceva agli archeologi d’inizio secolo); quella infine del rudere Intermetro con il suo goffo tentativo di dissimulazione entro la propria cancellata (come era tollerabile dalla cattiva coscienza dei passati amministratori).

La costruzione di unità parziali tra i frammenti ottenuti da tale decostruzione è stata graduale, come dichiarano le successive versioni del progetto, testimonianze negative dei troppi “resti” che man mano abbiamo cercato di ridurre, in precario equilibrio tra il sottolineare la eloquente specificità dei frammenti ed il ricomporli in unità parziali, come si diceva.

Così il Rudere riacquista il senso, ora solo metaforico, di Mostra d’Acqua mediante il sistema di fontane disposte lungo l’asse della piazza, immagini del Ramus Acquae luliae e grazie allo specchio arcuato, immagine a sua volta della ipotetica vasca che forse lo completava verso la città. Lo stesso monumento riconquista la propria collocazione planimetrica e alti metrica mediante i nuovi muri che lo fasciano sui lati seguendo la biforcazione stradale Romana e che, disegnati a immagine di strati geologi, indicano la originale quota di imposta del Ninfeo. Quest’ultimo infine riguadagna la propria collocazione urbana per mezzo della piazza semicircolare che tende a spingerlo al di fuori del giardino e farlo partecipare al tessuto urbano del quartiere.

Del disegno ottocentesco del giardino, ormai quasi cancellato persino nell’elemento vegetale, abbiamo recuperato gli elementi qualificanti: il perimetro, che il progetto sottolinea con il ripristino della cancellata originale, e il cerchio centrale che intendiamo ridefinire mediante una fitta e alta quinta di sempreverdi. All’interno di questa quinta circolare si collocano smembrati e ridotti all’essenziale i resti di quello che è il sistema affiorante degli impianti sotterranei dell’lntermetro, ai quali verrà data dignità di elementi scenografici entro questo palcoscenico alquanto metafisico. I volumi saranno rivestiti a nuovo quali elementi tradizionali di arredo del giardino romano: rampa, portale, grotta, immagini di immagini di frammenti architettonici.

Il carattere labirintico del tracciato ottocentesco è riproposto nell’altra metà della scena centrale, ove verranno collocati elementi di sorpresa ora sparsi nel giardino, quale è, ad esempio il bozzetto di Rutelli per la fontana dell’Esedra.

Per ultima la “Porta Magica” con il solitario cipresso – testimone che la sormonta genererà attorno a sé un minuscolo “Giardino Magico”, spazio circondato e inaccessibile, “hortus conclusus” di piante fiori e profumi insoliti, visibile e percepibile solo dall’esterno.</p>